A poco più di un mese dalla firma del cosiddetto Paris Agreement, accordo siglato da 195 paesi al termine della ventunesima Conferenza delle parti ONU (COP21) nel quadro dell’Accordo UNFCCC sui Cambiamenti Climatici, è lecito tirare qualche somma sulla qualità dell’accordo e sugli obiettivi in esso contenuti, anche alla luce degli approfondimenti di altre autorevoli fonti.

È in primo luogo opinione comune che il maggiore lascito in termini positivi – per alcuni critici, l’unico – dell’evento tenutosi a Le Bourget poco dopo i sanguinosi attentati di novembre, sia stato l’accordo in sé. In altri termini, lo sforzo e la capacità tecnica diplomatica dimostrata dalla squadra francese, che ha condotto ad un accordo che in altri luoghi non sarebbe potuto essere raggiunto, ha chiarito da un lato la fondamentale importanza degli aspetti diplomatici, dall’altro ha dimostrato come sia possibile trovare punti di incontro anche all’interno di prospettive di partenza da parte di Stati o gruppi di stati quantomeno controverse. In sintesi: avere condotto gli stati a condividere un agreement basato sui famosi 2°C rispetto all’era preindustriale, è già un risultato non scontato, e quello di Parigi può essere ritenuto il primo accordo universale sul cambiamento climatico – in contrapposizione con la limitata partecipazione per esempio al Protocollo di Kyoto. 

È tuttavia altrettanto opinione diffusa che il contenuto dell’accordo sia in gran parte deludente, in particolare per chi si aspettava accordi vincolanti stile Kyoto, con vincoli precisi e sanzioni per chi non li rispetta. A questo tipo di obiezione è necessario rispondere che purtroppo, un accordo di questo tipo non sarebbe mai potuto essere siglato a Parigi: molti stati, in particolare i maggiori emettitori, Cina e Stati Uniti in primis, non avrebbero accettato l’ingresso in un sistema vincolante. Per questo motivo la Road to Paris – onde evitare un clamoroso flop stile Copenhagen 2009 – è stata lastricata di volontarietà da parte degli stati, costruendo man mano l’accordo firmato il 12 dicembre scorso con i mattoni consegnati dai singoli paesi attraverso i Contributi Nazionali Volontariamente Determinati (INDCs). Grazie a questo approccio rovesciato, che lascia libertà ai singoli paesi e soprattutto evita il passaggio formale di approvazione presso il Congresso degli Stati Uniti – dove sarebbe stato affossato – siamo qui a commentare un accordo raggiunto.

Ma questi mattoni sono sufficienti a costruire un tetto che ci metta al riparo dai rischi del cambiamento climatico, ormai acquisiti e condivisi grazie ai fondamentali contributi di migliaia di strutture di ricerca nel mondo, a partire dal lavoro dell’IPCC? Per stessa ammissione dell’accordo di Parigi, no. Gli INDCs non sarebbero in grado di ottenere il risultato principale dell’accordo, ovvero quello di limitare la crescita della temperatura media globale well below” la soglia dei 2°C, con un target fissato a 1.5 °C, che limiterebbe i danni del climate change ad un livello tollerabile in termini economici ed ecosistemici, seppur non trascurabile. I modelli climatici affermano infatti che i 146 INDCs nazionali presentati ex ante l’inizio del summit implicherebbero la crescita della temperatura globale ad una forbice che si colloca tra i 2,7° e i 4/5° C al 2100. Al contrario, al fine di raggiungere gli obiettivi prefissati nell’accordo, sarebbe necessario raggiungere un livello zero di emissioni tra il 2030 e il 2050 e successivamente sviluppare un bilancio globale negativo.

Appare evidente quindi che il gap tra gli auspici contenuti nel Secondo Articolo dell’accordo e gli effettivi impegni degli stati è assai significativo.

Un altro tema grandemente dibattuto nell’ambito del testo siglato è quello relativo alle tempistiche di riduzione delle emissioni. L’articolo 4, comma 1, che contiene indicazioni su questo tema, infatti, presenta molti aspetti di indeterminatezza, che lasciano un margine di manovra giudicato da alcuni eccessivo ai singoli stati. Si riporta infatti che il cosiddetto “peaking” delle emissioni, ovvero massimo della curva dello stato, debba essere raggiunto “as soon as possible” e che a questo punto debba essere fatta seguire una “rapida riduzione delle emissioni sulla base dei più aggiornati dati scientifici a disposizione”, nel quadro della “maggiore ambizione possibile (comma 3)”.

Ulteriore argomento di critica è il momento di entrata in vigore, fissato per il 2020, a seguito della ratifica ufficiale prevista per aprile 2016 nel caso di adesione di almeno 55 stati rappresentanti il 55% delle emissioni globali. Secondo diversi modelli climatici, partendo dai ritmi di crescita delle concentrazioni di anidride carbonica nell’atmosfera, il 2020 sarebbe già all’interno di un intervallo temporale di modificazione irreversibile delle componenti climatiche. In sostanza, l’accordo e gli impegni diverrebbero ininfluenti, poichè “troppo tardi”.

Quindi nessuna speranza? 

Per molti invece l’accordo di Parigi, per quanto – era inevitabile viste le premesse – incompleto, vago, indeterminato, imperfetto, rappresenta un ponte fondamentale tra oltre cento anni di economia fondata su combustibili fossili e una nuova era sintetizzabile con la sigla “carbon neutral economy”. L’ingranaggio che si prefigge di muovere l’immensa macchina dei 195 stati del mondo verso questo quasi-miraggio è un meccanismo volontario – seppur vincolante in termini complessivi – che si fonda sulla moral suasion e sul controllo incrociato tra gli stessi stati. In sintesi, l’accordo prevede che, a partire dal 2023, i firmatari si riuniscano ad intervalli quinquennali per rinnovare gli impegni nazionali contenuti negli INDCs, aggiornandoli in modo volontario “a rialzo”, in un processo di miglioramento continuo. Oltre all’aggiornamento verso target di riduzione più stringenti ed ambiziosi, i partner dell’accordo si impegnano a realizzare una attività di reporting adeguata a garantire la trasparenza delle informazioni collegate al processo di riduzione, che consenta di costruire e ampliare il cosiddetto Global Stocktake, una sorta di inventario complessivo degli obiettivi determinati e raggiunti e della distanza dal target ancora da percorrere. La forza che pretende di vincolare gli stati a questo impegno è semplicemente lo sguardo vigile degli altri – oltre ovviamente all’occhio mediatico, particolarmente attento e informato negli ultimi mesi – che rappresenta un rischio di name and shame per coloro che eventualmente violassero i propri impegni.

Quali rischi? Principalmente rischi politici. Presumibilmente, l’approssimarsi delle scadenze quinquennali, orienterà gli stati a valutare quali misure sono state approntate dagli altri partner, quanto stringenti, e soprattutto quali conseguenze in termini di consenso politico queste scelte abbiano determinato. Nel caso di effetti avversi significativi, è probabile che alcuni paesi possano ritirarsidall’accordo – operazione possibile e consentita in ogni momento. Se a sottrarsi dal patto saranno grandi stati emettitori e geopoliticamente influenti, è inevitabile che altri stati si sentiranno autorizzati ad accodarsi versi l’uscita, prefigurando la morte dell’accordo. Da questo ragionamento consegue una notevole rilevanza rispetto alla responsabilità politica non solo dei livelli più alti dello stato, ma anche degli elettori. 

Per concludere, possiamo giudicare l’accordo di Parigi parafrasando una frase già utilizzata per difendere il sistema democratico: è un pessimo accordo, ad eccezione di tutti quelli approvati finora. Non bisogna dimenticare inoltre che la firma è avvenuta anche grazie all’allineamento indispensabile di alcune condizioni di contesto, che hanno consentito la vittoria della battaglia negoziale. Tra queste, la disponibilità di un presidente americano che non ha un’altra elezione all’orizzonte, la volontà di un leader cinese dettata anche dalla necessità di dare risposte alle crisi ambientali interne, il basso prezzo del petrolio che stempera le tensioni sull’argomento dei combustibili fossili, i primi segnali delle devastazioni potenziali causate dal climate change

Pur tra mille contraddizioni e nella permanente incertezza di fondo, che deriva dalla delega delle responsabilità alla volontà degli stati, si può affermare che questo ennesimo punto di partenza rappresenti una spinta definitiva verso una direzione di cambiamento dei modelli di sviluppo globale, ed avvenga in un anno che annovera l’accordo di Parigi come sigillo alla nascita di altre due pietre miliari nella storia dello sviluppo sostenibile, come l’approvazione dei Sustainable Development Goals ONU e la pubblicazione dell’enciclica Laudato Sì.